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La sala centrale del museo è dedicata ai resti dei grandi cetacei che popolavano il golfo pliocenico. I reperti sono venuti alla luce sui calanchi delle valli dell'Arda, del Chiavenna e dell'Ongina a partire dalla fine del Settecento."

Il cranio di Rio Carbonari

Nella primavera del 1983 un cranio fossile pressoché completo di cetaceo viene rinvenuto nei calanchi di Rio dei Carbonari presso Tabiano di Lugagnano. A fare l’importante scoperta è un ragazzo di sedici anni, Roberto Volpi di Rezzano, un piccolo centro della Val Chero, durante un escursione in cerca di fossili in compagnia del padre Piero e di Luigi Rusconi, milanese, da anni residente a Badagnano di Carpaneto.

Il cranio si presentava affiorante dall’argilla nella parte occipitale, con le mandibole conficcate verso l’interno ad una altezza dalla base del calanco di una trentina di metri. Fin dai primi sopralluoghi ci si rese conto delle notevoli difficoltà a cui si sarebbe andati incontro nelle fasi di estrazione e soprattutto di trasporto del reperto. Il luogo del ritrovamento era posto infatti in fondo ad una valle molto stretta e coperta da un bosco fittissimo ed estremamente mossa da continui dossi ed avvallamenti, ad una distanza dalla più vicina strada carrabile di circa un chilometro.

Il cranio, quasi completo e della lunghezza di oltre due metri è riferibile al genere Balaenoptera cfr acutorostrata. Questa balenottera è un cetaceo di taglia relativamente piccola, la sua lunghezza massima infatti è di 10-12 metri contro i 25-30 metri della Balenottera azzurra, il gigante dei mari. Vive attualmente un po' in tutti i mari del nostro emisfero, Mediterraneo compreso, frequentando fondali relativamente bassi e prossimi alla costa. Il reperto giaceva in sabbie fini argillose, ricche di fossili, indicanti un ambiente di sedimentazione poco profondo, non più di qualche decina di metri, e molto prossimo alla riva. L’età delle ossa è la stessa di tali sabbie: Piacenziano, Pliocene superiore.

Lo scheletro di Monte Falcone

Lo scheletro di Monte Falcone è importante sia sotto il profilo scientifico che sotto quello storico dato che rappresenta il primo reperto rinvenuto sul territorio della provincia di Piacenza ad essere rimasto in loco e a non essere stato trasferito come i precedenti presso atenei universitari o musei di altre città. Nel 1936, sulle pendici calanchive di Monte Falcone, situate a poche centinaia di metri dall’abitato di Castell’Arquato, il dottor Antonio Menozzi rinvenne i resti fossili di un cetaceo inglobati nell’argilla, a metà di una ripida parete quasi verticale.

Lo scheletro, come è possibile osservare dalle foto scattate all’epoca del ritrovamento, si presentava incompleto e disordinato, con due mascellari inferiori ribaltati, la colonna vertebrale fuori asse e la scapola destra girata in senso opposto rispetto al resto dello scheletro; questo perché durante la decomposizione la carcassa subì l’azione energica della forza del mare prima di essere ricoperta da quell’argilla che ha permessola buona conservazione del materiale osseo. Terminata la fase di recupero tutto il materiale venne trasferito a Castell’Arquato, contribuendo così alla definitiva costituzione nel borgo medioevale del Museo geologico.

Dal 1961 in museo sono esposti i pezzi meglio conservati, che dopo il ritrovamento vennero restaurati e trattati con collanti per garantirne una migliore conservazione: si tratta della scapola destra, di numerose vertebre dorsali e caudali, di alcune coste e di parte del mandibolare.

La balenottera di Monte La Ciocca

Nella primavera del 1986 sui calanchi di Bacedasco grazie alla segnalazione di un appassionato di paleontologia, Carlo Cavalli, vengono alla luce alcuni frammenti di ossa di cetaceo. Lo scavo sistematico che si è protratto per oltre due mesi ha permesso di individuare un ramo mandibolare, sei coste frammentate, tredici vertebre tra cervicali e dorsali, vari dischi intervertebrali, la porzione posteriore del cranio comprendente anche una cassa timpanica e frammenti vari.

Lo scheletro giaceva praticamente alla sommità di una parete argilloso-sabbiosa estremamente ripida esposta a Sud ad una quota di m 329 s.l.m. alta circa una ottantina di metri. Una volta individuata l’area su cui procedere nel lavoro di scavo, si è provveduto a sbancare la parte superiore della parete in modo da raggiungere il materiale dall’alto per individuare giacitura e consistenza e per evitare pericolosi franamenti, che nei primi giorni si erano verificati a causa delle abbondanti piogge cadute proprio in concomitanza con l’inizio dei lavori.

Lo scheletro era disposto sul terreno in modo piuttosto disordinato ad eccezione di due gruppi di vertebre tra loro in connessione anatomica ma mancanti dei dischi intervertebrali che invece risultavano per buona parte raggruppati in un altro punto dello scavo. Del cranio è stata recuperata la porzione posteriore prossima all’occipite ed una mandibola.

Il più recente ritrovamento di resti scheletrici di cetacei è del settembre 1986 quando il giovane Stefano Boiardi rinviene alcune vertebre e dischi intervertebrali di balenottera in un campo nei pressi di Prato Ottesola.

I delfini della Val Chiavenna

Vicino al granchio due colonne vertebrali di delfino che facevano parte della collezione del pittore prof. Bruno Sichel amante della Val d’Arda ed esperto conoscitore dei calanchi che si affacciano sulla Val Chiavenna nei quali rinvenne una grande quantità di fossili tra i quali appunto questi due reperti di particolare interesse. Ogni singola vertebra si e conservata fino ai giorni nostri praticamente intatta; le due differenti colorazioni (grigiastra e giallognola) sono dovute alla matrice in cui si trovavano inglobate e precisamente un’argilla grigia ed una sabbia gialla.

Il granchio di Castell’Arquato

Vicino ai resti di questi grandi giganti del mare vissuti nel golfo padano intorno a tre milioni di anni fa, vi sono anche significativi esemplari di invertebrati. Uno di questi, certamente il più significativo, è un grande granchio fossilizzato rinvenuto a poche decine di metri dall’abitato di Castell’Arquato. La completezza dell’esemplare di cui sono ben visibili sia le due grandi chele ed il fatto che questo sia l’unico ritrovamento effettuato nei terreni del pliocene locale, conferiscono una notevole importanza al reperto che solamente da pochi anni fa parte delle collezioni del museo dimostrando come sia ancora pieno di tesori e vada debitamente salvaguardato il patrimonio paleontologico della provincia di Piacenza.

Un clima che cambia

La significativa presenza di molluschi a carattere tropicale quali Terebridi, Conidi, Cipreidi, organismo quasi del tutto estinti nei mari europei ma che vivono tuttora nella fascia tropicale e sub tropicale, indica che il clima alle nostre latitudini in alcune fasi del Pliocene dovesse essere sensibilmente più caldo di quello attuale. La loro lenta scomparsa verso la fine di questo periodo, ci rivela come il clima dovesse procedere verso un lento e continuo raffreddamento, tanto che, all’inizio del Pleistocene, la comparsa nei sedimenti di numerosi “ospiti freddi” (specie immigrate da latitudini più elevate) tra le quali il bivalve Arctica islandica indica un clima di tipo boreale, simile cioè a quello dell’odierno Atlantico del nord, dove questo mollusco anche oggi è presente.